una zuppa di broccoli

Dieta e Glicemia: un nuovo studio

Dieta e Glicemia: un nuovo studio

Un nuovo studio dimostra che una dieta a basso contenuto di carboidrati
aiuta le persone con diabete non trattato e quelle a rischio di diabete a ridurre la glicemia.

Sebbene le diete a basso contenuto di carboidrati siano spesso consigliate a coloro che sono in cura per il diabete, fino ad oggi esistevano poche prove che dimostrassero se mangiare meno carboidrati può influire sulla glicemia delle persone con diabete o prediabete che non assumono farmaci specifici.

In un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Network Open, un gruppo di ricercatori hanno confrontato due gruppi specifici di soggetti: uno assegnato ad una dieta a basso contenuto di carboidrati e un altro che ha continuato a seguire la dieta abituale. Dopo sei mesi, il gruppo di soggetti che stava seguendo una dieta a basso contenuto di carboidrati ha registrato un importante calo dell’emoglobina A1c – un indicatore dei livelli di zucchero nel sangue – rispetto al gruppo che seguiva la dieta abituale. I soggetti appartenenti al gruppo con la dieta a basso contenuto di carboidrati ha anche mostrato una perdita di peso e ha registrato, a digiuno, livelli di glucosio più bassi.

Il messaggio che deve passare è che una dieta a basso contenuto di carboidrati, se mantenuta, potrebbe essere un approccio utile per la prevenzione e il trattamento del diabete di tipo 2, anche se sono necessarie ulteriori ricerche – afferma Kirsten Dorans, assistente alla cattedra di epidemiologia presso la Tulane University School of Public Health and Tropical Medicine e autrice principale della ricerca di cui parliamo.

Soltanto in Europa sono circa 61 milioni i soggetti affetti da diabete [dati aggiornati al 2021], una condizione che si verifica quando l’organismo non utilizza correttamente l’insulina e non riesce a regolare i livelli di zucchero nel sangue. È calcolato che il diabete di tipo 2 rappresenti nel mondo oltre il 90% dei casi.

Il diabete di tipo 2 può compromettere gravemente la qualità della vita con sintomi quali visione offuscata, intorpidimento di mani e piedi e stanchezza generale e può causare altri gravi problemi di salute come malattie cardiache, perdita della vista e malattie renali.

I risultati dello studio sono particolarmente importanti per i soggetti affetti da prediabete, i cui livelli di A1c sono superiori alla norma ma inferiori a quelli che verrebbero classificati come diabete.

Molte delle persone che si trovano nella condizione di prediabete non ne sono consapevoli. I soggetti affetti da prediabete sono a maggior rischio di diabete di tipo 2, infarto o ictus e di solito non assumono farmaci per abbassare i livelli di zucchero nel sangue: per questo una dieta sana è ancora più cruciale.

Lo studio ha coinvolto soggetti partecipanti la cui glicemia variava da livelli prediabetici a diabetici che non assumevano farmaci per il diabete. I partecipanti al gruppo a basso contenuto di carboidrati hanno visto i livelli di A1c ridursi dello 0,23% in più rispetto al gruppo che seguiva la dieta abituale, un valore che la Dott.ssa Dorans definisce “modesto ma clinicamente rilevante”.

È importante notare che i grassi costituivano circa la metà delle calorie assunte dai soggetti del gruppo a basso contenuto di carboidrati, ma stiamo parlando per lo più di grassi monoinsaturi e polinsaturi salutari presenti in alimenti come l’olio d’oliva e le noci.

Lo studio non dimostra che una dieta a basso contenuto di carboidrati sia in grado di prevenire il diabete, ma apre la strada a ulteriori ricerche su come mitigare i rischi per la salute di chi soffre di prediabete e diabete non trattato con farmaci.


 

pasticche di vitamina di disposte come a formare i raggi del sole

Vitamina D: quanto ne abbiamo davvero bisogno e in quali casi?

Vitamina D: quanto ne abbiamo davvero bisogno e in quali casi?

La vitamina D non è la panacea per risolvere tutti i problemi,
ma ha mostrato risultati promettenti in alcune aree chiave.

Per anni si è pensato alla vitamina D come a un integratore miracoloso in grado di ridurre il rischio di sviluppare cancro, malattie cardiovascolari, diabete, fratture ossee e un lungo elenco di altre malattie, croniche e non.

Una serie importante di studi realizzati negli ultimi anni ha dimostrato che la vitamina D non è la panacea che può risolvere tutti i problemi: la stragrande maggioranza di noi ottiene già tutta la vitamina D di cui ha bisogno grazie ad una dieta corretta e ai benefici dei raggi solari.

La domanda importante da porsi – anzi da porre preferibilmente al medico di famiglia – è: ho davvero bisogno di un integratore? Per la maggior parte degli adulti sani, la risposta è no. Abbiamo bisogno solo di quantità moderate di questa vitamina.

Nel 2009 è stato avviato uno studio in doppio cieco volto a fornire risposte più chiare sulla possibilità che l’integrazione di Vitamina D possa prevenire malattie cardiache, ictus e cancro. Lo studio randomizzato, realizzato negli Stati Uniti su scala nazionale chiamato VITAL Study, ha reclutato quasi 26.000 adulti e li ha seguiti per cinque anni. I partecipanti allo studio hanno accettato di ricevere un placebo o 2.000 unità internazionali di vitamina D al giorno, senza sapere quale stessero assumendo.

I primi risultati, pubblicati nel 2019, non hanno rilevato alcuna riduzione statisticamente significativa delle malattie cardiovascolari o del cancro. Anche altri studi randomizzati non hanno rilevato chiari benefici degli integratori di vitamina D per queste malattie. In particolare è stato pubblicato uno studio che analizzava gli integratori di vitamina D e il rischio cardiovascolare raccogliendo dati da ben 21 studi randomizzati condotti su oltre 83.000 persone. Questa analisi non ha trovato un solo studio che dimostrasse un beneficio legato alle malattie cardiovascolari.

Anche i risultati di altri studi hanno dimostrano che gli integratori di vitamina D non riducono il rischio di declino cognitivo, depressione, fibrillazione atriale o diverse altre condizioni di salute. Si deve citare anche un rapporto recente che non ha mostrato alcuna riduzione del tasso di rischio fratture ossee collegato all’assunzione di integratori da vitamina D: idea che un tempo era citata come il beneficio più comune legato a questa vitamina.

La vitamina D, quindi, non è una panacea. Ma rimane uno strumento fondamentale specificatamente per due aree di intervento.

Sempre nell’ambito dei risultati ottenuti dal sopracitato VITAL Study, si è scoperto che gli integratori di vitamina D possono avere effetti benefici sulla riduzione delle malattie autoimmuni e del cancro in fase avanzata. L’integrazione di Vitamina D sembra, in questo caso, ridurre il rischio di sviluppare condizioni autoimmuni come l’artrite reumatoide e la psoriasi di circa il 22% e il cancro avanzato del 17%.

Altri studi hanno indicato che la vitamina D può migliorare la funzione immunitaria e contribuire a ridurre l’infiammazione, il che può contribuire a spiegare il possibile legame tra la vitamina e i migliori risultati in ambito clinico.

Confrontarsi con il proprio medico

Chiunque rientri in una categoria a rischio di carenza da vitamina D, dovrebbe confrontarsi inizialmente con il proprio medico di riferimento così da valutare l’opportunità di assumere un integratore e di sottoporsi a un test dei livelli ematici di vitamina D. Tra le categorie più a rischio per questa deficienza si segnalano nello specifico

  • le persone che vivono in case di riposo, dove l’esposizione al sole potrebbe essere scarsa
  • le persone con determinate restrizioni alimentari come una grave intolleranza al lattosio
  • le persone con condizioni di malassorbimento come il Morbo di Crohn o la celiachia
  • le persone in cura per l’osteoporosi o altri problemi di salute delle ossa.

Per il resto, se vi sentite bene e siete in buona salute, il test per la vitamina D è probabilmente inutile. Tra gli studi effettuati nel corso degli ultimi anni – tra i quali questo per citarne uno – non sono state trovate prove sufficienti per raccomandare uno screening di routine legato a questa vitamina.

Qualche accorgimento

Se siete ancora preoccupati per i vostri livelli di vitamina D, ma non fate parte di un gruppo ad alto rischio, provate ad adottare alcuni semplici accorgimenti per aumentarne l’assunzione.

Per quanto riguarda la dose raccomandata di vitamina D quotidiana, fate sempre riferimento al vostro medico di fiducia. I valori infatti variano in base all’età e ad altri fattori legati alle condizioni specifiche di ogni persona.

Tra gli alimenti che consigliamo relativamente all’apporto di vitamina D ci sono i funghi selvatici e i pesci grassi come il salmone, le sardine e il tonno, ma anche burro, carne di fegato, formaggi grassi.

Inoltre, un’uscita di 15 minuti a piedi un paio di volte alla settimana a mezzogiorno è solitamente sufficiente a far sintetizzare alla pelle una quantità ottimale di vitamina D. Può trattarsi anche di un’esposizione accidentale al sole, ad esempio mentre si fanno delle commissioni. Un’idea ancora migliore per la salute è quella di fare attività fisica all’aperto, ad esempio praticando sport o andando a correre. In questo caso vi ricordiamo di utilizzare una crema di protezione solare che, sì, riduce leggermente l’assorbimento dei raggi solari, ma è fondamentale per prevenire il cancro della pelle e l’invecchiamento precoce della pelle, se l’esposizione al sole è prolungata.

Anche se è molto più facile prendere una pillola che fare attività fisica all’aria aperta e mangiare in modo sano, questi ultimi due aspetti fanno di più per mantenervi in salute e ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, cancro e diabete. L’assunzione di un integratore non potrà mai sostituire una dieta e uno stile di vita sani.


 

Due mani operano una finta tiroide costruita con pezzi di puzzle

Ipotiroidismo: parliamo di dieta e alimentazione

Ipotiroidismo

Parliamo di dieta e alimentazione

La tiroide è una ghiandola endocrina dalla caratteristica forma di farfalla che si trova nella parte anteriore del collo e che è coinvolta in numerose funzioni dell’organismo, soprattutto quelle che regolano il nostro metabolismo.

L’ipotiroidismo è una sindrome che rende insufficiente l’azione degli ormoni tiroidei, prevalentemente quando la tiroide stessa non ne produce una quantità sufficiente con un conseguente squilibro di tutto l’organismo. Soffrire di ipotiroidismo può rallentare il metabolismo, causando aumento di peso, affaticamento e altri sintomi.

Come gli studi scientifici più recenti suggeriscono, l’ipotiroidismo è collegato ad un maggiore rischio di malattie cardiache, problemi di salute mentale ed altre problematiche tra le quali tre che sono specifiche per le donne:

  • Le donne con ipotiroidismo soffrono spesso di irregolarità del ciclo mestruale che variano da periodi assenti o poco frequenti a periodi molto frequenti e dal flusso abbondante. Queste irregolarità mestruali possono rendere difficile la gravidanza ed essere un vero e proprio fattore di infertilità.
  • Le donne incinte affette da ipotiroidismo hanno un aumentato rischio di aborto spontaneo durante la gravidanza.
  • Un altro tipo di disturbo che colpisce la ghiandola tiroidea è chiamato gozzo. Il gozzo provoca un gonfiore nella ghiandola tiroidea che può essere accompagnato o meno da carenza o eccesso ormonale. Un nodulo tiroideo è un gonfiore localizzato della ghiandola ed è quattro volte più comune nelle donne.

Spesso la via medica per trattare questa sindrome è quella che prevede di ricorrere all’uso di medicinali in grado di riequilibrare l’organismo rimpiazzando gli ormoni tiroidei mancanti.

Dieta e Ipotiroidismo

La dieta e le scelte alimentari non sono in grado di curare l’ipotiroidismo ma svolgono tre ruoli fondamentali che vanno conosciuti per gestirne la condizione:

  • Gli alimenti che contengono determinati nutrienti possono aiutare a mantenere una corretta funzione della tiroide, per esempio lo iodio, il selenio, lo zinco.
  • Altri alimenti invece interferiscono a detrimento della normale funzione tiroidea, come quelli contenenti soia. Limitando questi prodotti alimentari i sintomi possono essere alleviati.
  • Alcuni alimenti e integratori, infine, possono interferire negativamente con il modo in cui il corpo assorbe i farmaci sostitutivi della tiroide. La limitazione di questi alimenti può quindi aiutare l’organismo.

L’ipotiroidismo rallenta il metabolismo. Per questo è spesso correlato all’aumento di peso. Le persone affette da questa sindrome dovrebbero porre quindi particolare attenzione alla loro dieta, scegliendo prodotti in grado di diminuire l’effetto della mancata produzione ormonale.

È quindi utile conoscere quali sostanze siano in grado di migliorare la qualità della vita di chi è affetto da ipotiroidismo e in quali alimenti si possano reperire naturalmente.

IODIO

Il nostro corpo non è in grado di produrre naturalmente lo iodio, sostanza però necessaria alla produzione di ormoni.  È quindi importante assurmere questa sostanza scegliendo cibi in grado di fornirne come:

  • formaggi
  • latte
  • gelato
  • sale da tavola iodato
  • pesce d’acqua salata
  • uova intere

Bisogna fare attenzione al fatto che anche un’assunzione di quantità troppo elevate di iodio può contribuire a peggiorare l’ipotiroidismo o a produrre ipertiroidismo. Per questo è sempre indicato rivolgersi ad un professionista in grado di costruire con il paziente e poi modificare nel tempo una dieta corretta.

SELENIO

Il selenio è nutriente antiossidante che svolge un importante ruolo nella produzione degli ormoni tiroidei. Gli stessi tessuti della tiroide contengono il selenio in maniera naturale.

Gli alimenti ricchi di selenio includono:

  • tonno
  • gamberi
  • manzo
  • tacchino
  • pollo
  • prosciutto
  • uova
  • fiocchi d’avena
  • pane di farina integrale

ZINCO

Lo zinco è un altro nutriente che ha importanti effetti benefici sugli ormoni tiroidei e quindi sul metabolismo del nostro organismo.

Gli alimenti ricchi di zinco includono:

Gli alimenti che sarebbe meglio evitare

Alcuni alimenti contengono sostanze nutrienti che potrebbero contribuire ad un cattivo funzionamento della produzione tiroidea. Anche se non stiamo parlando di alimenti da vietare, un uso ridotto si è dimostrato efficace nel ridurre le sintomatologie di questa sindrome.

GOZZIGENI

Tra gli alimenti che contengono gozzigenianti-tiroidei possiamo segnalare:

  • cavoli
  • cavoletti di Bruxelles
  • cavolo russo
  • broccoli
  • cavolfiore

È molto importante però ricordare come questi alimenti offrano anche molti benefici per la salute. Le persone affette da ipotiroidismo possono assolutamente godere di questi cibi se assunti con moderazione: gli scienziati ritengono che questi cibi influenzino solo gli ormoni di chi ne consuma in eccesso. Va aggiunta l’importante informazione che il processo di cottura sembra disattivare gli effetti negativi sulla tiroide delle sostanze gozzigene.

SOIA

Negli ultimi anni alcuni ricercatori hanno scoperto che la soia può interferire con il modo in cui la tiroide produce ormoni.

In uno studio clinico pubblicato nel 2017, una paziente aveva sviluppato un grave ipotiroidismo dopo aver consumato una bevanda salutare contenente elevate quantità di soia per 6 mesi. Le sue condizioni sono poi migliorate dopo aver sospeso la bevanda e assunto farmaci sostitutivi dell’ormone tiroideo.

Gli alimenti che contengono soia includono:

  • latte di soia
  • salsa di soia
  • fagioli di soia
  • tofu
  • miso

ALIMENTI PROCESSATI o TRASFORMATI

Una persona dovrebbe evitare gli alimenti processati che tendono ad essere densi di calorie pur offrendo pochi benefici nutrizionali. Questa tipologia di alimenti è nota anche per favorire l’aumento di peso.

Esempi di alimenti perocessati includono:

  • Fast food
  • hot dog
  • ciambelle
  • torte
  • biscotti

GLUTINE

L’Ipotiroidismo può avere legami con una malattia autoimmune sottostante. Chi presenta i sintomi di questa sindrome può quindi essere più a rischio di altri di sviluppare altre condizioni autoimmuni come la celiachia.

La celiachia causa infiammazione cronica e danni all’intestino tenue a causa dell’ingestione di glutine. Il glutine è una proteina contenuta nel grano e in altri cereali, tra cui orzo, avena e segale.

Trattare la celiachia comporta seguire una dieta priva di glutine. Anche se non è ancora stato accertato un legame certo, le persone con ipotiroidismo autoimmune possono tentare di eliminare il glutine dalla loro dieta per vedere se i loro sintomi migliorano.


Come sempre queste informazioni e questi consigli hanno un carattere informativo. Il nostro intento è di farvi percepire l’importanza di affrontare questioni come l’ipotiroidismo assieme ad un professionista in grado di costruire con voi un percorso medico che corrisponda al vostro reale stato di salute. I professionisti di Villa Donatello, per esempio quelli che formano il team per il percorso di cura EndOsMet, sono a vostra disposizione per analizzare la vostra situazione personale.

alcuni kiwi sia chiusi che aperti

Vitamina K e metabolismo osseo: mito e realtà

Pubblichiamo oggi una versione adattata per il nostro blog di una importante Review dedicata al rapporto tra Vitamina K e metabolismo osseo recentemente pubblicata dalla Dr.ssa Roberta Cosso e dal Dr. Alberto Falchetti del Gruppo EndOsMet su un’importante rivista scientifica.


Vitamina K e metabolismo osseo: facciamo un po’ di chiarezza.

Cos’è e dove si trova la vitamina K?

Sotto il termine vitamina K è rappresentato un gruppo di vitamine liposolubili, strutturalmente simili, identificate meno di 100 anni fa.

Diverse forme di vitamina K sono state descritte in natura e rappresentano vitamine liposolubili uniche, con una specifica funzione di coenzima (processi di carbossilazione): K1, K2, e K3.

La vitamina K1 è presente nelle piante/verdure, in più alta quantità in verdure a foglia verde, direttamente coinvolta nella fotosintesi. Gli animali possono anche convertirla a K2.

Le molecole di vitamina K2, o menachinoni, sono prodotte a livello intestinale da sintesi batterica.

Le principali forme alimentari si trovano, per lo più, in alimenti contenenti grassi, ad esempio formaggio fermentato, che ne miglioreranno l’assorbimento e la biodisponibilità rispetto alla K1.

La maggior parte della produzione di K2 avviene nel colon


La vitamina K3, o menadione, rappresenta una molecola provitaminica ed è un analogo sintetico, non usato come integratore nutrizionale nei paesi economicamente sviluppati per la sua potenziale tossicità.

Diversi prodotti naturali/sintetici, contenenti metaboliti della vitamina K, sono disponibili in commercio e il loro uso viene anche consigliato per una non meglio specificata salute delle ossa.

È pertanto necessario e utile affrontare questo aspetto specifico del loro uso, descrivendo lo stato dell’arte alla luce degli studi di ricerca di base, traslazionale e clinici, riportati in letteratura.

Esistono chiare evidenze per un’efficacia della vitamina K sulla salute dello scheletro?

In realtà, non abbiamo alcuna certezza di una reale efficacia della vitamina K nella prevenzione delle fratture da fragilità.

Ad oggi, gli studi clinici pubblicati sono stati condotti su diverse etnie, con diverse abitudini alimentari, supplementazione di metaboliti differenti di vitamina K, dosi diverse della stessa e diversi fattori di rischio di frattura.

La vitamina K sembra essere importante per la salute dell’osso e, in effetti, bassi livelli circolanti sono stati associati ad un aumentato rischio di fratture dell’anca in studi osservazionali.

Tuttavia, i risultati degli studi clinici sono ancora inconcludenti e non è ancora certo se la sua supplementazione, come K1 o K2, diminuisca il rischio di fratture vertebrali, non vertebrali, anche a causa dei limiti metodologici per la valutazione di questi risultati.

Deve ancora essere considerato e compreso quale tipo di vitamina K (K1, K2, K3?) sia da utilizzare nella pratica clinica quotidiana, come supplemento/farmaco per una migliore salute delle ossa.

vitamina-k-e-metabolismo-osseo

Possiamo suggerire la vitamina K con indicazione certa per mantenere o migliorare la qualità ossea?

L’efficacia della vitamina K sulla qualità dell’osso e sulla prevenzione delle fratture dovrà essere confermata in futuro con grandi studi clinici randomizzati, controllati, con una potenza statistica sufficiente per rilevare differenze, tra i gruppi confrontati, reali e clinicamente significative.

Attualmente, esistono diverse limitazioni prima di prescrivere consapevolmente una dieta arricchita o supplementi di vitamina K per una migliore salute ossea e queste limitate evidenze sulla prevenzione delle fratture da fragilità, fanno sì che non sia attualmente consigliabile un uso di routine dei supplementi per prevenire osteoporosi e fratture in donne in postmenopausa e uomini.

Inoltre, non abbiamo alcuna informazione chiara relativa a quali marcatori biologici potrebbero essere più sensibili ed accurati per valutare gli effetti sullo scheletro, sia positivi che negativi, della sua assunzione.

Domande ancora aperte

Vi sono ancora domande aperte che necessitano di adeguata risposta:

  1. nonostante un effetto minimo sulla massa ossea, la vitamina K può avere un effetto protettivo sulla fratture?
  2. quali altre vie metaboliche ossee vitamina K-dipendenti, oltre a quelle note, potrebbero essere presenti nell’influenzare il rischio di frattura?
  3. l’effetto della vitamina K sulla frattura potrebbe essere mediato attraverso un ruolo sulla qualità, la geometria, o la forza dello scheletro?

Un ruolo per il microbiota?

Un equilibrio tra microbiota (insieme dei microorganismi che vivono in simbiosi nel tubo digerente dell’uomo) benefico e patogeno durante l’infanzia e l’adolescenza potrebbe essere rilevante per la salute gastrointestinale e in generale per una sintesi e mantenimento favorevole di vitamina K.

Per concludere…

Nei prossimi anni, studi umani preclinici o clinici, dovranno produrre dati basati sull’evidenza per sostenere un ruolo per la supplementazione di vitamina K nella prevenzione e cura di malattie metaboliche dell’osso, come l’osteoporosi.

Vi è anche la speranza che ulteriori studi saranno più chiari nello stabilire una relazione causale tra stress ossidativo e perdita di massa ossea in donne in postmenopausa e uomini nell’invecchiamento, attraverso la somministrazione di agenti antiossidanti protettivi, quali la molecole di vitamina K, attraverso la dieta o integrazioni.

Roberta Cosso e Alberto Falchetti