delle miniature di operai simulano di scavare dei gusci di arachidi

Allergia alle arachidi: una sperimentazione dai risultati eccellenti

Allergia alle arachidi: una sperimentazione dai risultati eccellenti

Grazie a un probiotico ricercatori australiani ottengono una tolleranza che “cambia la vita”

L’allergia alle arachidi è una delle più perniciose e diffuse nella popolazione. La caratteristica principale di questa tipologia di allergia, a differenza di quanto succede per le altrettanto diffuse allergie al latte e alle uova, è di non andare in regressione con il passare del tempo, ma di essere permanente.

L’allergia alle arachidi, che si manifesta molto presto nell’arco della vita normalmente tra i 12 mesi e i sette anni d’età, procura generalmente reazioni fastidiose ma non particolarmente pericolose. Rimane comunque causa si shock anafilattico ed è una delle più comuni cause di morte tra quelle legate alle allergie da cibo.

Il contatto con la sostanza è già di per se scatenante e può verificarsi sia per assunzione diretta che tramite il consumo di alimenti che, nel corso della loro lavorazione, sono venuti a contatto con le arachidi.

Un gruppo di ricercatori australiani, però, è riuscito ad ottenere risultati eccellenti dalla ricerca e poi da una sperimentazione sull’allergia alle arachidi nei bambini.

Un piccolo studio clinico condotto presso il Murdoch Children’s Research Institute ha ottenuto che due bambini su tre, tra quelli sottoposti ad un trattamento immunoterapico sperimentale a causa della loro allergia, abbiano superato il problema e che la desensibilizzazione alle arachidi ha poi persistito per ben 4 anni una volta terminato il trattamento.

I bambini sui quali abbiamo ottenuto importanti risultati hanno potuto inserire liberamente arachidi nella loro dieta senza dover seguire alcun programma particolare negli anni successivi al completamento del trattamento – ha spiegato Mimi Tang, il Professore a capo della ricerca.

Un probiotico per riprogrammare il sistema immunitario

Per ottenere qesti risultati il Professor Tang, un immunologo e un allergologo, hanno aperto una strada verso una nuova forma di trattamento che combina l’assunzione di un probiotico con l’immunoterapia orale di arachidi (PPOIT). Invece di evitare l’allergene, il trattamento è progettato per riprogrammare la risposta del sistema immunitario alle arachidi in maniera da sviluppare una tolleranza.

Lo studio di cui stiamo parlando si è concentrato su 48 bambini suddivisi in maniera casuale tra chi è stato sottoposto ad una combinazione del probiotico Lactobacillus rhamnosus con proteina di arachidi in quantità crescente, o di un placebo, una volta al giorno per 18 mesi.

Alla fine della sperimentazione originale, avvenuta nel 2013, l’82% dei bambini che hanno ricevuto il trattamento immunoterapico sono stati ritenuti tolleranti alle noccioline rispetto a solo il 4% che faceva parte del gruppo collegato al placebo.

Quattro anni dopo, la maggior parte dei bambini che avevano raggiunto la tolleranza iniziale continuavano a mangiare noccioline come parte della loro dieta normale e il 70% ha superato un ulteriore test di prova per confermare la tolleranza a lungo termine.

Una nuova strata verso il trattamento delle allergie alimentari?

Il Professor Tang si è detto entusiasta dei risultati che hanno cambiato la vita dei partecipanti.

Abbiamo avuto bambini che hanno partecipato allo studio che erano allergici alle arachidi e che dovevano evitare assolutamente le arachidi nella loro dieta. Tutto questo comportava una vigilanza loro e dei loro familiari molto importante che portava ansia e preoccupazioni. Alla fine del trattamento e anche quattro anni dopo, molti di questi bambini che hanno beneficiato della nostra terapia, possono ora vivere come se nulla fosse, liberi dal problema.

La speranza è che, se confermato da studi clinici più ampi, questo trattamento possa avere un impatto sugli alti tassi di allergia alimentare tra i bambini a più ampio raggio.

Si tratta probabilmente dell’identificazione di un trattamento finalmente efficace nell’affrontare il problema delle allergie alimentari nelle società occidentali.


 

Un'immagine al microscopio di cellule staminali

Cellule staminali: promesse e perplessità. A che punto è la ricerca?

Cellule staminali: promesse e perplessità

Dove è arrivata la ricerca?

Gli sviluppi attuali della ricerca nel campo delle cellule staminali promettono di riuscire a salvare molte vite umane, ma non per le ragioni che inizialmente si pensava potessero rappresentare per la medicina.

Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio, sia gli scienziati che la stampa specializzata credevano nella possibilità che le cellule staminali sarebbero riuscite a trasformarsi in qualsiasi tipologia di cellula, così da poter sostituire o accomodare un qualsiasi tessuto danneggiato.

Quelli che sembravano imminenti sviluppi si trasformarono in realtà in una ricerca molto lenta e difficoltosa. Per un certo periodo l’interesse generale su questa nuova opportunità sembrò scemare o, quantomeno, ridimensionarsi molto.

A che punto siamo oggi?

Quello che la ricerca sta ottenendo dalle cellule staminali non dipende dalla loro capacità camaleontica di interpretare il ruolo di qualsiasi altra cellula presente nei nostri tessuti, ma qualcosa di molto più sottile, che le rende efficaci in campi d’applicazione e modalità inaspettate, alcune delle quali rimangono ancora oscure per i ricercatori. Tutto questo, d’altra parte, è promettente allo stesso modo in cui sembrava promettente quindici-venti anni fa, tanto che grandi realtà del mondo della medicina, come la Food and Drug Administration statunitense, hanno inserito le tecniche collegate alle cellule staminali in programmi che riguardano la medicina rigenerativa, allo scopo di individuare e perseguire nuove tipologie di terapia.

Un passo indietro: cosa sono le cellule staminali

Le cellule staminali sono come piccole lavagne vuote che, adattandosi all’ambiente che le circonda, sono in grado di diventare cellule specializzate. Alcune provengono da feti, ma molte si trovano anche in organismi in età adulta e sono già attrici importanti di alcune terapie: le cellule staminali del midollo osseo, ad esempio, possono diventare sangue, cartilagine o cellule ossee.

Cosa c’è di nuovo

La ricerca da un po’ di tempo non gode più delle luci della ribalta dei primi anni, cosa che si è dimostrata in realtà un vantaggio che permette agli scienziati un lavoro più accurato, senza la pressione costante dell’attenzione pubblica. Grazie a ciò molti piccoli progressi sono stati ottenuti. Tutta una serie di studi attualmente in corso utilizzano vari tipi di cellule staminali per trattare malattie, tra le quali:

  • La SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Nel decorso di questa malattia neuromuscolare, chiamata anche Malattia di Lou Gehrig, alcune cellule cerebrali degradano. Le cellule staminali iniettate nei ratti sembrano proteggere proprio questa tipologia di cellule offese dal morbo. Esiste ad oggi almeno un centro medico che, da poco, ha iniziato a reclutare pazienti umani per un primo livello di studio clinico.
  • Ictus. Le cellule staminali del midollo osseo, iniettate nel sangue, hanno contribuito a ridurre le difficoltà di movimento su 31 pazienti colpiti da poco tempo da ictus, in un recente studio condotto dall’Università di Grenoble in Francia e dall’Università di Baltimora nel Maryland. I risultati sono stati presentati recentemente alla riunione annuale della Society for Neuroscience. Lo scopo è quello di dare vita ad un nuovo e più approfondito studio su un campione più vasto, composto da 400 pazienti.
  • Lesioni spinali. Durante uno studio clinico compiuto su sei pazienti con lesioni spinali recenti, tutti hanno recuperato alcune funzioni motorie dopo aver ricevuto una particolare tipologia di cellula staminale.

immagine di una coltivazione in vitro di cellule staminali

Cosa dobbiamo aspettarci in futuro

Uno dei campi di ricerca più promettenti è quello che studia i comportamenti del sistema immunitario di una persona che è stata oggetto di una ferita da arma da fuoco alla testa. Il nostro sistema immunitario, di fronte a questa tipologia di evento, assume un comportamento anomalo che lo porta ad aggredire i neuroni, distruggendo così importanti regioni del nostro cervello. Una ricerca condotta presso l’Università di Miami mostra che le cellule staminali neuronali umane possono prevenire questo processo nei ratti, offrendo al loro sistema immunitario qualcosa di diverso da attaccare rispetto alle cellule cerebrali.

Un’altra ricerca, sempre compiuta sui ratti, dimostra come le cellule staminali siano in grado di proteggerli da problemi di coordinazione legati a determinate lesioni. Ma su questo fronte servono ulteriori ricerche prima che la scienza sia in grado di compiere sperimentazioni sull’uomo.

Le perplessità

La maggior parte dei ricercatori che studiano le cellule staminali, o che seguono gli sviluppi della ricerca a loro collegata, concordano sul fatto che queste possano svolgere un importante compito nel trattare molte malattie. Tuttavia esistono perplessità, come quelle legate alla loro azione sui meccanismi dell’ictus, per fare un esempio. In questo caso parte del mistero è dovuto al fatto che, durante studi compiuti in passato sull’ictus, alcune cellule staminali iniettate nel flusso sanguigno non abbiano poi raggiunto effettivamente il cervello colpito, ma siano state invece processate dalla milza, attraverso un meccanismo ad oggi non chiarito. Restano comunque ben documentati molti casi di benefici procurati dall’uso di cellule staminali per l’ictus negli animali.

I dubbi oggi esistenti non sono circoscritti soltanto a quanto osservato per l’ictus. Sebbene numerosi studi abbiano dimostrato che le cellule staminali possono essere trattamenti efficaci in molti casi, le esatte modalità attraverso le quali agiscono rimangono non del tutto chiare. Si comincia a sospettare che la forza terapeutica delle cellule staminali potrebbe non risiedere nelle loro capacità di guarire, quanto piuttosto in quella di proteggere: come anti-infiammatorie, protettive contro la formazione di cicatrici o, più in generale, come neuroprotettive.

La scienza medica – e gli enti che ne regolano le attività nei vari paesi e nel mondo – è comprensibilmente riluttante ad approvare nuovi trattamenti in mancanza di conoscenze sufficienti per comprendere il meccanismo attraverso il quale le cellule staminali agiscono su un organismo. Fino a quando gli scienziati non capiranno meglio perché i diversi trattamenti con le cellule staminali sembrano aiutare nel trattamento di alcune patologie, proseguire senza un criterio chiaro potrebbe limitare lo sviluppo di trattamenti più precisi ed efficaci in futuro.

Malgrado queste perplessità impongano un passo decisamente più lento e ragionato, le cellule staminali rimangono di interesse assoluto anche per lo studio di altri fenomeni quali la tossicità delle droghe, la misurazione della progressione di alcune malattie e, più in generale, nell’aiutare i ricercatori a capire meglio come avviene lo sviluppo di un organismo vivente, dall’uovo all’embrione e fino alla vita compiuta.


 

virus dell'HIV in azione

Una svolta nella cura dell’HIV?

AIDS: nuovi importanti sviluppi sulla cura del virus dell’HIV

Un team di ricerca britannico ha ottenuto risultati sorprendenti su un paziente in particolare

In Gran Bretagna un gruppo di ricercatori ha dichiarato di aver ottenuto dei risultati molto importanti su un partecipante alla sperimentazione che è in corso su una nuova tipologia di cura per l’HIV. Sembrerebbe infatti che, al termine di un ciclo completo di trattamenti, non vi siano più segni del virus nel corpo del paziente.

La ricerca, portata avanti da 5 tra le più importanti università britanniche, combina farmaci antiretrovirali standard, un farmaco che riattiva il virus dormiene dell’HIV e un vaccino che stimola il sistema immunitario a distruggere le cellule infette.

I farmaci antiretrovirali da soli sono già in grado di bloccare la riproduzione del virus, ma non eliminano la malattia, quindi andrebbero assunti per tutta la vita.

Un nuovo trial sperimentale è in corso attualmente su 50 soggetti e il fatto che ha creato molto rumore nell’ambiente scientifico è che, nel sangue del primo paziente che ha terminato il ciclo di trattamenti, non è stata più trovata alcuna traccia del virus.

Dovrà passare molto tempo prima di poter gridare al successo visto che, in passato, già altre volte il virus era ricomparso in pazienti che si ritenevano definitivamente curati. Anche la contemporaneità dell’uso dei farmaci retrovirali, in questo senso, potrebbe essere fonte di un’errata valutazione sull’eliminazione della malattia. Malgrado ciò sta circolando un certo ottimismo attorno al team di ricerca.

Mark Samuels, direttore amministrativo del National Institute for Health Research Office for Clinical Research Infra­structure, ha dichiarato al Sunday Times:

Questo è uno dei più seri tentativi mai sperimentati per ottenere una cura per l’HIV. Stiamo davvero esplorando un nuovo approccio per la cura definitiva. Si tratta ovviamente di una sfida molto complessa ma i progressi sino a qui compiuti sono davvero importanti.

L’HIV è in grado di nascondersi dentro a cellule dormienti, sostanzialmente rendendosi invisibile al sistema immunitario e quindi resistente alle terapie. Questo innovativo trattamento sostanzialmente spinge il virus a rendersi di nuovo visibile e attiva conseguentemente il sistema immunitario a riconoscerlo e attaccarlo: un metodo che è stato chiamato “kick and kill“.

Attualmente nel mondo ci sono 35 milioni di persone affette dal virus dell’HIV, mentre già 37 milioni ne sono morte nel corso degli anni passati.

La difficoltà di dichiarare un paziente libero dalla presenza del virus è emersa molte volte in passato. Un caso molto famoso, per esempio, fu quello di una bambina del Misissippi che fu inserita in un trattamento a base di forti dosi di farmaci antiretrovirali nelle prime 30 ore dalla sua nascita, dopo che la madre era stata trovata positiva al test dell’HIV. Il trattamento fu portato avanti per 18 mesi fino a quando madre e bambina non fecero perdere le loro tracce. 5 mesi dopo, al loro ritorno in clinica, nel sangue della bambina non fu riscontrata alcuna presenza del virus, facendo sperare tutti che la malattia fosse stata debellata completamente. Purtroppo 2 anni dopo il virus fece di nuovo la sua comparsa, con dispiacere di tutti.

L’unica persona che si crede sia stata mai curata definitivamente dall’HIV è Timothy Ray Brown, un paziente americano trattato in Germania. Brown ebbe allora bisogno di un trapianto di midollo osseo per sostituire cellule cancerose presenti nel suo corpo con cellule staminali in grado di riattivare il suo sistema immunitario. Il suo medico, in quel caso, trovò un donatore naturalmente resistente all’infezione da HIV grazie a una mutazione genetica naturale che impediva al virus di riuscire ad aggredire le cellule.

Tuttavia, i trapianti di cellule staminali sono complessi e potenzialmente pericolosi per il destinatario. Per questo vengono utilizzati, al momento, soltanto come ultima risorsa per salvare una vita.


la mano guantata di un medico tiene una siringa

Un Cavallo di Troia contro il Cancro grazie alle nanoparticelle?

Contro il Cancro un’iniezione di nanoparticelle in sperimentazione

Un metodo promettente che simula un’infezione virale potrebbe mettere in moto il Sistema Immunitario a combattere i tumori?

Una ricerca tedesca presentata Mercoledì scorso simulerebbe la presenza di un virus nel nostro corpo tale da smuovere il Sistema Immunitario ad attaccare i tumori.

È forse l’immunoterapia la soluzione che tutto il mondo sta aspettando contro la più terribile delle malattie? La ricerca purtroppo si avvale, ad oggi, soltanto di risultati ottenuti su tre pazienti ma sembrerebbe risvegliare il corpo umano a combattere la malattia in maniera aggressiva.

Sviluppato in laboratorio questo vero e proprio Cavallo di Troia conterrebbe RNA tumorale – vero e proprio codice genetico della malattia – trattenuto da una membrana.

L’iniezione svilupperebbe nel sistema una vera e propria simulazione di un’infezione virale: cellule dendritiche decodificherebbero l’RNA tumorale presente nelle nanoparticelle attivando, di conseguenza, la produzione di antigeni tumorali. Questi antigeni attiverebbero a loro volta cellule specializzate a combattere quelle tumorali.

Dopo un primo periodo di test effettuati su cavie la soluzione è stata testata su tre pazienti con cancro della pelle in stadio avanzato in quella che rimane comunque una prima fase di un processo lungo e complicato per assicurare la validità di questa nuova scoperta.

I primi risultati sono molto promettenti visto che si è riusciti a sviluppare una forte risposta immunitaria come riportato dal team di ricerca sulla rivista Nature.

Se ulteriori studi confermassero il funzionamento di questo sistema si potrebbe provare a realizzare delle varianti in grado di attaccare qualsiasi forma di cancro esistente, annunciano ancora i ricercatori.

Questa nuova forma di trattamento, chiamata per il momento Vaccino RNA, funzionerebbe quindi come un vaccino vero e proprio, imitando un agente infettivo in grado di stimolare la risposta del nostro sistema immunitario.

Le risposte immunitarie riscontrate sono davvero impressionanti

annunciano Jolanda de Vries e Carl Figdor, esperti del centro medico dell’Università Radboud di Nijmegen nei Paesi Bassi, nell’analisi pubblicata su Nature aggiungendo anche

La ricerca è ancora agli albori. Saranno necessari studi diffusi su larga scala prima di poter convalidare i risultati osservati fino ad oggi.

L’immunoterapia viene già utilizzata nel trattamento di alcune forme di cancro, ma non è ancora stato sintetizzato alcun vaccino universale.

A differenza di virus, batteri o funghi – che possono essere aggrediti dai farmaci – le cellule tumorali non sono intruse, bensì cellule del nostro corpo il cui DNA è danneggiato. Questo è il motivo principale per cui la maggior parte esse circolano in incognito nel nostro corpo senza che il sistema immunitario le riconosca e attacchi.

Per la stessa ragione trovare farmaci in grado di uccidere le cellule malate senza danneggiare quelle sane si è rivelato da sempre molto complicato.

La chemioterapia, per esempio, ha come obiettivo le cellule in rapida divisione, tipiche del cancro, non riuscendo però a distinguere tra buone cattive.

L’immunoterapia, in questo caso, servirebbe per stimolare la risposta del corpo mirata all’uccisione delle sole cellule malate.

Anche se la ricerca è molto interessante, rimane in qualche modo ancora lontana dall’essere di provata come beneficio effettivo per i pazienti

specifica Alan Melcher, Professore di Immunoterapia presso l’Institute of Cancer Research di Londra. 

Una delle altre sfide in sospeso, riguardo a questo tipo di terapia sperimentale, rimane la difficoltà pratica nella produzione su vasta scala di nanoparticelle che rendano davvero possibile l’applicazione clinica.

fonte: The Guardian

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